Parla Jean Claude Mbede Fouda, fondatore All Tv
E se l’avessimo rispedito indietro per obbedire al discorso populista di quel 2008 che segnò l’inizio della crisi economica che colpiva l’Italia e l’Europa tutta? Quell’anno Pdl e Lega Nord avevano stravinto le elezioni politiche anche grazie a uno slogan basato sul rimpatrio indiscriminato dei migranti e la chiusura delle frontiere nazionali.
Invece, è diventato un volto dell’”immigrazione positiva” che sognerebbe qualsiasi paese. Dimostrando con impegno, spirito di sacrificio e onestà che i migranti possono essere una risorsa per il paese.
Da quel 2008 Jean Claude MBEDE FOUDA, giornalista venuto dal Camerun un 24 gennaio pomeriggio forzato dalle vicissitudini di una delle ultime dettature politiche africane, è diventato un cittadino rispettato nella società italiana. Prima ha forzato le porte ermetiche dell’Ordine dei giornalisti, diventando il primo esiliato a iscriver visi, e dallo scorso gennaio sta svolgendo l’incarico di “Communications Officer” per conto della Cooperazione in Etiopia, Gibuti e Sud Sudan. Un anno fa, il 18 ottobre 2013, con l’appoggio del Fondo Europeo, il Consiglio Italiano per i rifugiati e l’OIT di Torino, lancia a Milano il progetto All-tv (www.all-tv.tv), canale televisivo online. Il primo anniversario di questo progetto accolto come una rivoluzione culturale è il pretesto per questa intervista, intrusione nella vita anche privata di un rifugiato di tutto rispetto. Che merita di essere raccontata.
All tv è nata un anno fa con l’obiettivo di diventare il primo canale televisivo multietnico d’Italia. Che bilancio fate di quell’obiettivo?
Un anno eravamo un trio multietnico, e dopo tentato senza successo di fondare un’Agenzia afro italiana (Afrikitalia.it), insieme a Cheikh Tidiane Faye e Claudia Oriolo decidemmo di creare All tv. Avevamo due obiettivi: il primo era fondare in Italia un canale televisivo che realizzasse l’ideale di una società della cittadinanza comune, con differenze accettate e rispettate. Il secondo obiettivo era creare una piattaforma di dialogo fra i popoli che vivono in Italia affinché potessimo conoscerci e discutere utilizzando la lingua che ci unisce, l’italiano. Volevamo mettere a disposizione delle nuove generazioni uno strumento di dialogo comune, e siamo contenti che in un anno circa settantaquattro giovani italiani e stranieri abbiano potuto lavorare insieme, consentendo al progetto di proseguire e progredire.
Eppure All tv è rimasto solo un “progetto” che fa fatica a diventare la tv voluta?
Quando si fa un progetto come il nostro che è culturale, editoriale e imprenditoriale, c’è bisogno di tutti. A livello culturale, abbiamo avuto un’adesione completa del pubblico italiano. La politica ci ha messo la faccia perché l’inaugurazione ha visto un successo inusuale in Italia per un progetto simile, peraltro promosso da un cittadino nato all’estero. Abbiamo ricevuto 264 curriculum vitae da tutti i settori. Abbiamo pubblicato 356 video e 1254 articoli. Abbiamo avuto più di tre milioni di visualizzazioni sul sito e quasi dieci milioni su Facebook. All’inizio addirittura avevamo fra venticinque e cinquanta mila visite al giorno. Questo è quello che noi potevamo dare a titolo di volontariato. E lo abbiamo fatto. Purtroppo, questo patrimonio e questi sforzi non hanno conosciuto adesioni a livello imprenditoriale. Non abbiamo avuto un solo euro dalle imprese e dalle autorità. Senza soldi nessuno può fare una tv. Non basta solo avere il progetto, l’idea, un business plan fatto bene. Alcune grandi imprese straniere ci hanno fatto delle promesse, chiedendoci di mettere il logo delle proprie aziende sui manifesti dell’evento inaugurale promettendo di dare un contributo economico, per poi sparire dopo il 18 ottobre. Ecco perche, fra gli altri motivi, All tv ha sofferto ed è rimasto solo un progetto. In tutti i grandi paesi, le autorità incoraggiano la società civile a fare progetti come il nostro. Ripeto, nessuno può fare una tv senza soldi. All TV è stata un’opportunità, e lo è tuttora. Chi investirà sulla prima tv multietnica d’Italia ci guadagnerà tantissimo.
Si dice che All-TV sia quasi finita quando sei andato all’estero lasciando il progetto. È vero?
No. Per come ho concepito All tv, contavo davvero poco all’interno del progetto per il suo funzionamento. Siamo un gruppo di professionisti e apprendisti volontari e dinamici. Anche oggi senza di me, All tv gode della presenza di una trentina di ragazzi determinati a non vedere il progetto morire. La Caporedattrice Angela Roig, che è una giornalista professionista italiana di origine peruviana, ha tenuto a galla la redazione. E l’ha fatto anche in pre-maternità (faccio tanti auguri a lei e al bimbo appena nato). Il progetto è stato gestito con efficacia da una ragazza delle seconde generazioni intelligente e preparata, Michelle Francine Ngonmo. Queste presenze dimostrano che anche se ci fossero stati dei soldi sarei andato via una volta che mi ha chiamato l’Italia a servirla all’estero. Ad All tv è mancato il sostegno economico, non la mia figura.
A proposito, sei da Gennaio 2014 in Etiopia, dove lavori per la Missione Italiana di Cooperazione. Da chi sei stato raccomandato?
Da me stesso. Ho saputo che c’era un bando con una posizione aperta per ricoprire un ruolo che ho sempre ricoperto. Ho sempre voluto lavorare per raccontare i rapporti tra Italia e Africa, e per questo motivo avevo fondato nel 2012 il sito Afrikitalia.it, che purtroppo si è chiuso per mancanza di fondi. Sono giornalista dal 1999. Ho fatto il reporter, il capo redattore, l’inviato, il direttore, l’editore sia in Camerun, sia in Italia. Avevo qualcosa da dare alla Cooperazione italiana in Etiopia, un paese prioritario per l’Italia, per questo ho deciso di fare domanda.
Com’è il tuo lavoro per l’Italia in Etiopia?
Sono addetto alla comunicazione, ossia collaboratore tecnico. Il mio compito è di mantenere i rapporti con la stampa globale. Organizzo eventi e aiuto la stampa locale e italiana ad avere una maggiore conoscenza del nostro lavoro.
Come sei stato accolto all’interno dell’apparato diplomatico italiano?
Sono stato accolto molto bene sia dall’allora Ambasciatore Renzo Rosso e dal Direttore dell’Ufficio della Cooperazione Italiana Fabio Melloni che dall’attuale Ambasciatore Giuseppe Mistretta. La cosa bella è che non mi hanno mai considerato come un ”diverso”. Mi hanno considerato sin dall’inizio come una risorsa, e questo mi ha aiutato molto.
Come ti hanno accolto i tuoi colleghi?
Sono stato integrato in un team di esperti che gestiscono i vari settori del nostro lavoro nella Cooperazione. Io gestisco la comunicazione che è centrale per qualsiasi struttura e mi metto in contatto con tutti. E quando lavori lì dentro e al mio posto capisci che ci sono tanti italiani, soprattutto all’estero, che amano davvero il nostro Paese.
Com’e la Cooperazione Italiana?
Ho visto che l’Italia fa tanto nella Cooperazione. Aiuta concretamente con ospedali, formazione di medici, progetti d’acqua e di educazione, sostegno all’agricoltura e all’impresa. Con poche risorse, l’Italia sta facendo davvero tanto. L’ho visto dal vivo e devo testimoniare.
Quanto tempo rimarrai al tuo posto in Etiopia?
Faccio quello che amo fare, comunicare, e lavorare per l’Italia è un privilegio unico per qualsiasi cittadino. Non m’interressa lo stipendio. M’interessa scrivere la storia. Le generazioni future ricorderanno quello che stiamo facendo oggi. Per questo vivo lontano dalle mie figlie che amo intensamente.
Questa è integrazione. Tu sei arrivato in Italia solo sei anni fa. Come si fa ad arrivare dove sei arrivato tu?
La mia integrazione in Italia non è stata facile, come quella di tanti altri migranti. Sopratutto per un rifugiato arrivato nel 2008, quando la crisi attuale iniziava davvero. Io ho accettato la sfida di soffrire. E ho sofferto tanto in Italia per percorrere la mia strada, perché spesso non c’è posto per l’immigrazione qualificata. Ho sofferto la fame e lo sfratto, ho distribuito volantini.
Perché sei in esilio?
Perché ho voluto essere onesto con me stesso e con la società. Quando ho visto come i giornalisti per sfuggire alla povertà si ”vendono” alle autorità e ai poteri forti, la mia fine naturale era l’esilio. Ho sofferto molto, l’esilio non è un gioco. Ho tanti amici in Camerun, ma li vedo in Europa.
Come ti senti oggi?
Sono contento di aver salvato la mia famiglia, la mia vita. Vedete quanti giornalisti e intellettuali sono morti dopo di me in Camerun e nessuno dice nulla. Quando sono venuto in Italia, la mia famiglia si era rifugiata in una chiesa. Non conoscevo la mia secondogenita neonata. Mi mancavano. Non avevo soldi al mio arrivo. E non parlavo l’italiano. A Crotone per quattro mesi, pregavo cinque volte al giorno per avere l’asilo. Ora vivo in Italia e vedo crescere le mie figlie in tutta sicurezza. Sono arrivato in Italia giovanissimo, e la mia energia la metto al servizio del mio nuovo paese.
Com’è la vita di un richiedente asilo?
In Italia la differenza tra il richiedente asilo e il titolare della protezione cui e stato riconosciuto lo status di rifugiato è che il secondo ha dei documenti. A parte questo, siete uguali. Non avete nulla. Il lavoro non c’è. Non parlate italiano. Non avete nessun sostegno. In quel settore, lo stato ha abbandonato tutto al volontariato purtroppo. A volte I centri d’accoglienza sono come delle carceri. Anche se ero arrivato con un visto regolare e un passaporto consegnato alle autorità, non sono stato trattato diversamente. Il mio primo choc fu essere trasferito a Crotone da Varese Ero in una stanza con cinque altri ragazzi con una mentalità molto diversa. Si battevano, a volte c’era del sangue. Venuto a Roma con i documenti per rifare la mia vita, andavo al Circo Massimo ogni giorno a cercare un po’ di centesimi di euro per terra. Per la mia fortuna ogni giorno trovavo almeno un euro e così telefonavo a mia moglie per dirle di essere forte che avrei fatto di tutto per portarla di nuovo con me. È stata dura, poi sono riuscito grazie all’Associazione Greencaccord, il Cir e l’Unhcr a portarle in Italia. Ho conosciuto Raffaella, la mia seconda figlia, all’aeroporto di Fiumicino. All’inizio eravamo in un centro di prima accoglienza, una sola stanza. Era vietato cucinare e Raffaella, che aveva otto mesi, richiedeva il latte. La responsabile era abbastanza rigida, per cui riscaldavamo il latte clandestinamente con il rischio di farsi espellere dal centro. È stato così fino a quando ho incontrato l’ex ministro Claudio Martelli, che stava lanciando un progetto di formazione per una web tv. Grazie a quel progetto sono uscito nel 2010 dal centro d’accoglienza, e sono andato a Milano per lavorare. Oggi vivo a Gallarate.
Sei diventato il primo rifugiato iscritto all’ordine dei giornalisti in Italia.
È stata una gioia incredibile. Quando ho ricevuto il mio tesserino dall’Ordine dei Giornalisti, ho sentito come se mi avessero restituito una vita rubata. Essere giornalista fa parte di me. La mia battaglia è durata tre anni, e devo dire che avevo già perso ogni speranza perché il Ministero della Giustizia non rispondeva alle mie richieste. Fino a quando ho conosciuto l’associazione “A Buon Diritto”, fondata dal Senatore Luigi Manconi e molto vicina a persone socialmente deboli. Valentina Brinis, molto colpita dalla mia battaglia ha deciso di farne un caso rappresentativo. Anche per mostrare ad altri rifugiati che è possibile rifarsi anche intellettualmente. È stata una battaglia diplomatica, accademica e politica, perché per un rifugiato diventato un nemico del regime era difficile avere alcuni documenti. L’ambasciata d’Italia in Camerun mi ha aiutato molto a raccogliere alcuni documenti. Poi, avendo lavorato per testate internazionali come la Radio Vaticana e Voice of America, ho potuto avere degli attestati verificabili. Ma è stata dura fino al decreto del Ministero della Giustizia, l’esame di stato e il tesserino del giornalista professionista.
Perchè hai nascosto quell’assegno del Capo dello Stato?
Avevo fatto la promessa al Presidente della Repubblica di non parlarne prima di un certo tempo. Speravo di farlo appena lui si fosse ritirato dall’incarico per omaggiarlo. Ero a Roma, in un Centro di prima accoglienza, e ricevevamo un buono pasto settimanale da 5 euro. Avevo tentato di fare un po’ di tutto per uscire da questa situazione, non sono uno che non si muove, anzi, ma era tutto bloccato. Allora avevo deciso di scrivere una lettera al Presidente della Repubblica per dirgli che, se in Italia soffriamo tutti, per noi che in Italia non abbiamo nessuno lo è ancora di più. Ringrazio i collaboratori del Capo dello Stato, perche sono stati molto sensibili. Dopo una settimana ho ricevuto una riposta del Presidente. Poi un assegno simbolico che mi ha fatto pervenire tramite la Prefettura di Roma.
Di quanto era l’assegno?
Permettetemi di non dirlo. Un assegno, seppur simbolico, dal Presidente, non ci credevo. Neanche i miei amici lo sanno. Un’addetta della banca rifiutò di pagarmi quando vide la firma sull’assegno. Mi chiese chi me l’avesse dato, ed io risposi: “ Il Presidente della Repubblica”. Al che lei replicò: “Beato te, salutami il Capo dello Stato la prossima volta”. Finalmente il responsabile di quella banca vide che era tutto regolare e pagò l’assegno.
Quel gesto del Presidente Giorgio Napolitano mi ha cambiato, perché nella sua lettera mi chiedeva di non mollare. E quelle parole mi hanno accompagnato in tutto ciò che ho fatto in Italia fino ad oggi.
Sei sposato. Tua moglie si è adeguata all’esilio?
L’esilio non è facile. Ho la fortuna di avere una moglie che mi ama e che mi ha seguito. Sono sette anni che non vede i suoi genitori!
Come vi siete conosciuti?
Ci siamo incontrati nell’estate del 2000. Ero un giovanissimo giornalista laureato e fiero. Ero stato mandato via dalla tv di stato, e prima di diventare capo ufficio stampa per la Federcalcio camerunense ero andato a fare il volontario presso una radio cattolica. Lei venne a visitare la radio, che trasmetteva preghiere e musica cristiana. Scrissi il numero di telefono della radio e lo passai a un giovane del suo gruppo. Ci mise un mese prima di chiamare, su incitazione di sua madre! Io in quei tempi cercavo una ragazza con cui costruire una famiglia. Credo molto nel matrimonio. Quando ci siamo visti, mi è piaciuta subito, e dopo non ci siamo mai più lasciati. Litighiamo spesso, colpa delle difficoltà a volte economiche e anche dell’ambiente, perché l’esilio è duro. Ma l’amore prevale sempre.
Qual è il tuo rapporto con le comunità straniere d’Italia?
Anche prima di All Tv, la gente mi vedeva in Tv e mi riconosceva per strada in Italia. Oggi ricevo tanti messaggi di persone che mi dicono quanto gli piace la mia idea dell’integrazione, tutto quello che faccio. All tv è finito sulle copertine di tanti giornali importanti in Italia e in Europa, e persino alcune comunità sudamericane hanno riconosciuto che stavo facendo bene per l’interesse dei migranti. Ma sapete chi non ha mai voluto parlare di All tv? Le comunità africane! La mia Africa. Mi vogliono cancellare, non m’invitano a nulla. Per loro All tv non esiste.
Come spieghi quest’atteggiamento di cittadini stranieri?
Tanti stranieri arrivati decine d’anni fa hanno scelto di vedere in me solo un rifugiato arrivato da poco e che fa loro ombra. Lavorare con gli italiani è spesso più facile che collaborare con cittadini d’origine straniera. A lavoro, sull’autobus, in città, i ragazzi di origine straniera cresciuti o addirittura nati in Italia sono quelli che più di tutti mi hanno discriminato.
Come si può correggere quest’atteggiamento?
La mia opinione è che vi sono stati discorsi e percorsi sbagliati, c’è stata una cultura della divisione. I nati in Italia vogliono essere più italiani di tutti. Ce l’hanno con gli Italiani e con i rifugiati. Poi qualcuno ha promosso piccoli giornali in lingue delle varie etnie, e questo secondo me crea un ulteriore distacco. Se uno straniero che arriva in Italia non impara l’italiano, come farà a integrarsi? Questo discorso mi è valso le minacce da parte di italiani e stranieri che operano in quel settore. Ma se vogliamo un cambiamento culturale, gli stranieri devono integrarsi e imparare l’italiano.
Sei durissimo con i ragazzi delle seconde generazioni…
Questo significa che sono duro con le mie figlie. Perché voglio il loro bene!
I ragazzi delle seconde generazioni devono puntare in alto studiando più di tutti. Altrimenti faranno sempre e solo lavori non qualificati: baby sitter, commessa, pizzaiolo. Integrarsi è secondo me prendere il meglio che offre la società italiana. Studiare può aiutare le comunità straniere a cambiare la propria immagine. Le mie figlie sanno cosa mi aspetto da loro: la laurea!
Qual è il tuo rapporto con Cecile Kyenge?
Un rapporto cordiale, di rispetto e professionale. Abbiamo fatto tanto insieme per la lotta per i diritti civili in Italia. Per me è stata un modello, mi ha ispirato. Ma ho un riflesso da giornalista e con certe persone importanti il rapporto spesso rimane molto professionale. Cosi è sempre stato con Cecile, nonostante la mia grandissima ammirazione. Tutti nuovi italiani dovrebbero imparare da lei. È arrivata in Italia a diciotto anni tra tante difficoltà, ha voluto studiare e oggi è un medico specialista. Se vogliono essere rispettati, i nuovi italiani devono puntare a essere medici specialisti, giornalisti professionisti, ingegneri. Così saranno rispettati dalla società. Ecco la mia idea d’integrazione.
I due personaggi policiti preferiti in Italia?
Il Presidente Napolitano e la presidente della Camera Laura Boldrini. Il primo è l’essenza della saggezza. Si è sacrificato nonostante l’età per il bene del paese. La seconda è una politica moderna. Abbiamo lavorato insieme nel campo delle migrazioni, è’ rimasta la stessa persona semplice e onesta.
E il Premier Renzi?
Ha tanta energia, tanta buona volontà. Ha un grande amore per l’Italia. Sta facendo bene e speriamo riesca a portare avanti le riforme che servono. Personalmente avrei voluto vedere nella sua squadra di governo Cecile Kyenge. In Italia ci sono tanti cittadini diversi per nascita, colore, religione, storia. Questo messaggio non deve mai mancare.
Che cosa pensi dello ”Ius Soli”?
La cittadinanza è la volontà di un cittadino straniero di fare di se stesso un membro della comunità nazionale, dunque deve essere meritata. Avere la cittadinanza non è avere un passaporto, così come essere integrati non è avere un lavoro e uno stipendio. Penso che la cittadinanza debba essere riconosciuta ai ragazzi nati o cresciuti in Italia, ma dopo un percorso scolastico determinato e prima di una certa età, per non creare uno choc psicologico. Ho l’abitudine di ripetere che l’integrazione passa anche dall’aiuto all’integrazione lavorativa dei genitori, perché se mia figlia per mangiare deve aspettare da me sempre un prodotto della Caritas, se non ha i soldi per fare una gita scolastica crescerà con questo riflesso d’inferiorità psicologica. Queste piccole cose devono accompagnare un processo vero d’integrazione.
Cosa pensi del dibattito sull’articolo 18?
Prima di pensare alle tutele, il lavoro lo dobbiamo trovare. Sono per un contratto unico che dia a tutti le stesse garanzie.
Segui ancora la nazionale di calcio del Camerun?
Certamente. La squadra del Camerun fa parte di me. Ho viaggiato tanto con essa e con alcuni giocatori ho vissuto cose straordinarie. Però non mi sono meravigliato per quello che è successo ai mondiali in Brasile, perché la politica ha usato il calcio dando ad alcuni giocatori, peraltro strapagati in Europa, troppo potere. È un peccato. Comunque seguo la nazionale del Camerun così come quella italiana. Il calcio è la mia passione più grande.
Qual è oggi il tuo rapporto con Samuel Eto’o, figura importante del calcio internazionale e del Camerun?
Samuel (Eto’o) ha fatto la storia del calcio. È un campione ma gli sono mancate la leadership e l’umiltà. Ha tenuto una nazione in ostaggio con la scusa dei premi non pagati. Una vergogna per uno che dalla nazione ha ricevuto tutto. Non permetto a un giocatore seppur milionario di insultare la bandiera come ha fatto Eto’o prima dei mondiali.
Hai incontrato Papa Francesco!
Sì, un evento unico nella mia vita, anche perche non ci speravo tanto. Era il primo settembre scorso. Ero stato invitato fra le stelle del calcio mondiale alla partita per la Pace. È stato il momento più bello della mia vita. Il Santo Padre è una persona dolce e allegra che trasmette gioia, energia e speranza. In cinque minuti mi ha cambiato profondamente.
Dove ti senti meglio essendo in esilio?
Sono di Gallarate! Mi sento emozionato quando lascio l’Etiopia per tornare a Gallarate, in Italia. Accetterei volentieri un riconoscimento come gallaratese nel mondo! A Gallarate mi piace andare in giro per la città a piedi. Mi sento sicuro, mi sento bene.
(Marsela Koci)